Proprio un trionfo no, ma ci si è andati davvero vicini. Sull’Italia di Rio, pagelle incluse, è stato già scritto tutto e dunque Palazzo di Vetro, alla ripresa dopo la tregua olimpica, si limiterà ad un paio di considerazioni. 1. Applausi incondizionati a Giovanni Malagò e alla sua squadra, i poco citati ma evidentemente in gamba Roberto Fabbricini e Carlo Mornati. A dar credito alle cassandre l’avvicinamento ai Giochi, con la distrazione permanente di Roma 2024 sul cui futuro Malagò continua a mostrare un certo (cosciente o incosciente?) ottimismo, profumava di mezzo disastro, e invece le cose si sono mostrate assai diverse: si è lavorato prevalentemente bene. Ci sono state discipline che hanno rialzato la testa, ciclismo e judo soprattutto. Ce ne sono altre che hanno tenuto alta (altissima) la tradizione, il tiro nelle sue varie declinazioni. Discorso a parte per il nuoto: liberi Malagò e Barelli di continuare a detestarsi, ci si può scommettere, se poi arrivano otto medaglie. Tute a parte (quel mega 7 trasversale, pur con tutto il rispetto per il dio marketing, chi scrive proprio non è riuscito a digerirlo), la prima vera Olimpiade di Malagò, che quella invernale di Sochi non poteva ritenersi tale, lo promuove insomma a pieni voti. 2. Proprio per questo, vietato sottovalutare i flop. Aggravati da un aspetto finito strada facendo nel dimenticatoio: i Giochi di Rio erano i primi della nuova ripartizione dei contributi Coni, tanto voluta da alcuni bene identificati presidenti di federazione. Da due anni, 25 milioni l’anno in meno al calcio per rimpinguare secondo criteri non sempre meritocratici le altrui casse federali. Anche se ogni fattispecie ha il suo «particulare» verrebbe da chiedere come diavolo sono stati spesi quei soldi dall’atletica, dalla canoa, dalla pur medagliata scherma, dal pugilato, dal badminton, per non parlare del basket che a Rio nemmeno ci è arrivato. E ci fermiamo qui, che le delusioni patite via tennis, quante occasioni mancate, e golf, ma lì di imbarazzante c’è stato soprattutto il «no grazie» causa zika (chi l’ha vista?) di Francesco Molinari, hanno altre origini (degne pure quelle di una qualche successiva analisi). A Malagò, che sarà riconfermato alla guida del Coni per acclamazione o quasi, chiediamo di intervenire su queste crisi di settore, lasciando per una volta perdere il plurimedagliato nuoto. Il tempo delle cambiali elettorali è scaduto e la sua forza è ormai tale da consentirgli qualsiasi cosa, anche la meno popolare o condivisa. Con o senza Roma 2024 c’è il modello Gran Bretagna: va studiato e imitato a 360 gradi.
E’ agli sgoccioli, Consiglio federale del 31 agosto, la riforma della giustizia sportiva del calcio. E con essa, ma questa volta sul serio, il mandato di Stefano Palazzi quale procuratore federale dopo oltre dieci anni di onorata (e talvolta criticata) carriera. Lo sostituirà Giuseppe Pecoraro, 66 anni, già prefetto di Roma, che si occuperà di tutta l’area pro, mentre quella dilettantistica sarà assegnata a un Procuratore aggiunto. Pecoraro doveva succedere a Palazzi fin dallo scorso mese di gennaio, una accelerazione voluta dal presidente Tavecchio che si arrestò di fronte all’irrigidimento di Palazzi e alle norme che non prevedevano cambi in corsa. Si è arrivati così alla scadenza naturale del 30 giugno e a una miniproroga dettata dalla contemporaneità degli Europei. Cambio della guardia anche per il giudice sportivo, con Gerardo Mastrandrea, attuale presidente della Corte federale, che prenderà il posto di Giampaolo Tosel. La Corte federale verrà divisa in due parti, una ordinaria e una sportiva, con relative sezioni sottostanti. A Palazzi verrà proposto di presiedere quella relativa alla Serie B, mentre Piero Sandulli si occuperà dei casi attinenti la Serie A.
Palazzo di vetro di Ruggiero Palombo (La Gazzetta dello Sport, 27 agosto 2016)
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