«Sono entrata in campo carica, forse troppo, poi mi sono lasciata andare, mi sono agitata, anche perché sono molto emotiva. Ma un motivo c’era, anche perché tutti i miei amici erano in tribuna: sapevano che non sarebbe stata una partita normale». L’ultima della carriera di Elisa Mele, 21 anni da compiere ad agosto, 11 trascorsi con la maglia del Brescia addosso, è durata un tempo: titolare otto giorni fa in Brescia-Fiorentina, finale di Coppa Italia persa 1-0 a Noceto (Parma), ieri educatrice di una bambina non vedente. Ma da tempo illuminata da una fede sintetizzata da una lettera di saluto apparsa sul sito del club: «Ho interrotto gli studi in Scienze dell’Educazione, a settembre mi iscriverò a Scienze Religiose. Voglio essere voce di chi non ha voce, aiuto per gli altri: voglio essere quella mi dice il cuore. Siccome sono una ragazza che crede, a un certo punto mi sono detta di voler capire determinate cose e non fondare la mia vita solo sul catechismo».
Elisa, come si sente?
«Tranquilla, anche se l’addio al calcio non è una cosa semplice. Lo dici, lo pensi, ma quando lo fai è diverso».
Prima di iniziare un nuovo percorso di studi, andrà un mese in missione in Mozambico.
«Una missione con i padri piamartini. Il Mozambico è stato recentemente colpito da un ciclone: io e gli altri ragazzi ci occuperemo di sistemare il più possibile quello che è stato distrutto, poi proporremo attività. E io insegnerò calcio».
Quando ha capito di voler cambiare strada?
«Ho sempre avuto dentro di me questa voglia di stare con gli altri: anche a Brescia sono molto attiva nel volontariato e in oratorio. Poi nell’ultimo anno ho capito sempre di più che questa è la vita che voglio».
Una vocazione vera e propria?
«Penso proprio di sì. La mia famiglia (il papà, all’oratorio di Santa Maria della Vittoria, a Brescia, è stato il suo primo allenatore, ndr) mi ha educata alla religione, ma non si è mai imposta».
C’è stata qualche esperienza che l’ha segnata più di altre?
«Una, ad Assisi. Andai da turista, vidi tanta gente che pregava: non mi era mai capitato, mi colpì positivamente. E conoscendo la figura di San Francesco, ho capito che i suoi valori avrebbero fatto bene alla mia vita: semplicità e umiltà, cose che fanno parte anche del calcio, quella che fino a una settimana fa è stata la mia vita».
La famiglia come ha reagito?
«Diciamo che un po’ sono rimasti sorpresi e anche dispiaciuti per il fatto che lasciassi una squadra così importante (ed Elisa ha all’attivo anche presenze in Nazionale, ndr), ma alla fine mi hanno appoggiata e hanno capito, anche perché questa è la mia volontà».
La squadra?
«Con qualche compagna e con Milena Bertolini (l’allenatrice, ndr) avevo già parlato, ma ho comunque mandato un messaggio. La squadra è orgogliosa di me, e io tiferò sempre per loro. Milena, che ha sempre curato l’aspetto relazionale prima di quello tecnico, mi ha detto “vai dove ti porta il cuore”».
E se fosse arrivata la convocazione per l’Europeo?
«Non so se sarei stata pronta ad andare».
Dove la porterà il cuore, tra qualche anno?
«A vivere in mezzo alle persone, cercando sempre il bello nel prossimo. Come e dove non lo so, questo intanto è un percorso universitario come tutti gli altri: non sto pensando al futuro, intanto voglio approfondire questi temi. Gli sbocchi, poi, potrebbero essere tanti: dall’insegnamento della religione nelle scuole, fino a diventare una missionaria a tutti gli effetti. Non escludo niente».
Cosa le mancherà di più del calcio?
«Tutto. Dall’allenamento alle partite, alla vita nello spogliatoio».
C’è qualcosa che invece non le mancherà?
«No».
Neanche le bestemmie? A proposito, nel calcio femminile se ne sentono?
«Qualcosa sì, anche se purtroppo è diventato un intercalare usato come una qualsiasi altra parolaccia. La bestemmia è una cosa che non comprendo: sapendo il dono che Dio ha dato a noi, non capisco per quale motivo debba essere offeso, anziché pregato».
Cosa porterà in Mozambico?
«Con le mie compagne, durante l’anno, abbiamo raccolto qualche paio di scarpini usati, che donerò ai bambini africani. E poi maglie e vestiti. Ma soprattutto porterò quella che sono».
Cos’è Dio per lei?
«Tutto. È il mio allenatore, la mia guida, quello che mi insegna come stare al mondo, quello che mi indica la strada. Sa molto meglio di me ciò che è bene per me: l’ho sentito molto vicino in questa scelta».
Che rapporto ha con Dio?
«Scandisco la giornata con la preghiera. Non ho momenti particolari, ma penso a Dio anche quando vedo il sorriso di un bambino. Ed è una cosa meravigliosa».
Intervista di Marco Calabresi (La Gazzetta dello Sport di sabato 24 giugno 2017)
L’intervento di Nicola Legrottaglie (La Gazzetta dello Sport di sabato 24 giugno 2017)
«Chi è?». Senti bussare. Prima piano, poi un po’ più forte e ti chiedi chi o che cosa sia. All’inizio non avverti alcuna risposta, perché è coperta dalle voci dello stadio e dal frastuono che c’è attorno al pallone: l’allenatore che grida, le ragazze che ti acclamano, i presidenti che ti pagano. I giornalisti che domandano e i procuratori che rispondono. La musica dei locali e le bottiglie che si stappano, il telefono che squilla, la Nazionale che ti chiama e i sogni che fanno la ola.
Poi il battito si fa deciso, quasi violento, incalzante. «Chi è?». E cominci a sentire dentro del brusio, in un principio di inquietudine e inappagamento che diventa crescente. Alla fine, tutto diventa chiaro in un attimo, come quando a una festa caotica il volume si azzera di colpo e senti l’unico che dice qualcosa. «Apri, per favore. Sono Gesù».
Cara Elisa, io posso immaginare che cosa hai provato. Non so se quella voce si sia presentata a te con lo stesso nome o abbia usato uno dei suoi tanti pseudonimi (coscienza, amore, spirito, anima), ma credo di conoscere quella sensazione, la pace che deriva dalla visione chiara del proprio scopo. Sai esattamente che cosa devi fare, perché a quel pensiero vieni travolto da un’ondata di serenità e ti senti finalmente libero, felice. E, come hai scritto tu, siamo esattamente chi vogliamo essere.
Aiutare gli altri diventa un’aspirazione ben più alta della convocazione al Mondiale. Si può fare andando in missione in Mozambico, tra miseria e malattie, o nel centro delle città industrializzate. Puoi salvare una madre dal colera o dalla violenza di un marito benestante, dalla fame o dalla depressione che mangia l’anima anche nell’agiatezza. Puoi dare forza a un padre con le medicine o parlandogli di quanto Dio lo ami.
Una vita è una vita, indipendentemente dalla latitudine. Non è importante dove sostenerla quanto come. Noi siamo calciatori (io ormai ex perché ho qualche anno più di te), ci è stato dato un talento e il privilegio di poterlo mettere a frutto per gli altri.
La tua vocazione umanitaria è una benedizione, ma lo è anche il tuo talento. E se questo da solo è fine a se stesso, unito al proposito, al fine per cui ci è stato donato, diventa anch’esso una missione. Spero tu voglia continuare anche in quella. In uno stadio o in un orfanotrofio, a Brescia o in Mozambico. Se Dio ti ha dato un cuore per gli altri, col pallone puoi servirlo in preziosi assist alla vita. E tu, in questo, sei già una campionessa. Dio ti benedica.