Kareem Abdul-Jabbar non ama molto far sentire la sua voce attraverso i media. Preferisce scrivere. E quando lo fa, di solito lascia il segno proprio come quando terrorizzava le difese Nba col suo irresistibile gancio-cielo. L’ex Lew Alcindor ha da tempo smesso di essere il gigante con gli occhiali che ha fatto collezione di anelli e record su un campo da basket. Ha continuato a essere un attivista politico proprio come quanto era giocatore. È diventato un filantropo e uno scrittore di successo il cui messaggio contro le discriminazioni e a favore dei diritti degli afroamericani e dell’uguaglianza sociale non cade mai nel vuoto. Questa sua dimensione attraversa tutto il suo ultimo libro «Coach Wooden and me – 50 anni di amicizia dentro e fuori dal campo», in cui raccontando il rapporto col leggendario tecnico che l’ha forgiato ai tempi di Ucla, Abdul-Jabbar offre anche uno spaccato di America che anziché essere finita nel libro dei ricordi è ancora molto attuale. E che lui sogna di aiutare a cambiare.
Kareem, qual è la lezione di vita più importante imparata da coach Wooden?
«È il modo in cui si è comportato, da uomo di integrità e compassione. Se vedeva qualcosa di sbagliato non lo ignorava sperando che passasse: lo attaccava. Se vedeva qualcuno bisognoso di aiuto, offriva il suo supporto. Tutto questo mi faceva desiderare di essere il tipo di uomo di cui altri dicono le cose che dicevo di lui».
Pensa di essere per qualcuno il tipo di modello che coach Wooden è stato per lei?
«Spero di esserlo stato per i miei figli. E ho cercato di esserlo per tutti quegli atleti coinvolti nell’attivismo politico e nella pacifica protesta delle ingiustizie sociali. Come diceva coach Wooden l’importante è continuare a fare la cosa giusta».
«Se sei nero in America tutto ha a che fare con la razza», scrive nel libro quando racconta la sua adolescenza. E’ ancora così?
«E’ così e continuerà a esserlo per molti anni. Essere nero influenza la tua vita dalla nascita alla morte. E’ un razzismo istituzionale che affligge l’intero sistema e deve essere rimosso. Non sto dicendo che tutti i bianchi americani sono razzisti: non lo sono, e la maggioranza di loro riconosce il problema e lo vuole risolto. Ma le radici sono profonde: ci vorrà del tempo».
Come pensa che gli atleti possano aiutare il cambiamento?
«Sono tra i più amati dai bambini: prendendo posizione contro un’ingiustizia sociale li illuminano su un problema che altrimenti, probabilmente, non conoscerebbero. Prima ne vengono a conoscenza, prima possiamo migliorare. Chi prende una posizione, però, rischia la carriera: uno sportivo dovrebbe farlo solo se ben conscio di questo. Anche se è solo attraverso atleti che rifiutano di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale o che boicottano la Casa Bianca per le posizioni o le politiche razziste del Presidente che può nascere il cambiamento».
Di che cosa è più orgoglioso della sua vita dopo il basket?
«Tutto ciò che ho fatto dopo aver smesso ha un unico scopo. Ho allenato liceali Apache in una riserva indiana, scritto libri, diretto una fondazione che manda i bambini a studiare la scienza nei boschi. Sono stato ambasciatore culturale per gli Usa, ho scritto articoli per promuovere il cambiamento sociale. Sembrano cose scollegate, ma sono integrate nella mia visione: credo nell’America dove ogni persona è trattata allo stesso modo e ha la possibilità di inseguire i propri sogni».
Che ruolo ha il basket nella sua vita ora?
«Sono un tifoso. A volte mi viene chiesto di commentare squadre o giocatori in tv o alla radio, cosa che amo nel comfort della mia poltrona».
Nessuno ha ancora avvicinato i 38.387 punti con cui ha chiuso la carriera: pensa che il suo record verrà mai battuto?
«Ho stabilito molti primati e ne ho visti battuti tanti: la gente si aspetta che io sia deluso quando uno dei miei record viene superato, ma io ne gioisco. Perché un primato battuto è l’umanità che fa un passo da gigante verso ciò che è capace di fare».
Ha qualche rimpianto per la sua carriera?
«No. Sono felice con i miei 6 anelli. Non avrei potuto sognare una carriera migliore».
Come giocherebbe Kareem Abdul-Jabbar nella Nba di oggi, dove i lunghi sono una specie in via d’estinzione?
«L’attuale enfasi sul tiro da 3 ha ridotto il ruolo dei lunghi. Ma lo sport è come un organismo vivente che si adatta all’ambiente che lo circonda: molto presto le difese si evolveranno e troveranno il modo di neutralizzare il tiro da fuori. E allora si dovrà fare più affidamento sui lunghi per rimbalzi e blocchi».
A rischio di sembrare uno di quei tifosi che, come racconta, spesso “disturbavano” i suoi pranzi con coach Wooden… cosa pensa di Lakers e Bucks?
«I Bucks sorprenderanno, trasformandosi in seri sfidanti. Hanno maturità, leadership e versatilità per fare bene. Sfortunatamente i Lakers non sono a quel punto. Sono una squadra ancora giovane e hanno bisogno che emerga un leader».
Nel basket di oggi vede qualcuno paragonabile a coach Wooden?
«Non c’è posto per uno come lui nel basket moderno. Si considerava prima di tutto un insegnante, con l’obiettivo di produrre bravi uomini che fossero anche bravi giocatori. Era competitivo, ma per lui la vittoria non era un obiettivo, ma la conseguenza di duro lavoro e disciplina. Si sarebbe considerato un fallito se una sua squadra avesse vinto tutte le partite, ma fosse stata composta da un gruppo di cafoni arroganti».
L’INTERVISTA di DAVIDE CHINELLATO (La Gazzetta Sportiva di domenica 17 settembre 2017)
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