AlpeAdriaU18-125

Il metodo VAR fuori dal campo

Tra un po’ di anni ci chiederemo chi era quell’uomo che faceva gesti nell’aria, quasi disegnasse, cosa voleva comunicare e perché. Oggi sappiamo che il suo luogo è un campo di calcio, che si tratta di un arbitro e che sta chiedendo ai suoi collaboratori il controllo televisivo di un’azione di gioco che gli risulta dubbia. Tecnicamente si chiama Var, cioè Video Assistant Referee, ed è un supporto approvato a livello internazionale per aiutare il cosiddetto direttore di gara a sbrogliare situazioni difficili: se c’è stato davvero un fallo da rigore, se un giocatore ha commesso un’infrazione grave e va espulso dalla partita, e altro ancora.Poiché il calcio ha un seguito impressionante, da noi come in tutto il mondo, e il tifoso che dà in smanie per una vittoria o una sconfitta può celarsi nella persona più compassata, si capiscono anche l’importanza di tale aiuto tecnologico e le emotività che può alimentare. Appena introdotto, il dispositivo ha già scatenato ogni sorta di lamenti e polemiche. Ma il calcio, come è pienamente manifesto, colora anche dei suoi modi, del suo linguaggio, della sua costante fibrillazione, l’intero tessuto sociale: fornisce immagini e parole non solo alle conversazioni giù al bar, ma all’insieme del discorso pubblico, dai media alla lingua adoperata dai politici, si direbbe in un grande abbraccio che oltrepassa steccati ideologici e differenze di vita, destra e sinistra, ricchi e poveri, perfino adulti e ragazzini. Appunto – si dirà – ecco nel vuoto di cultura attuale una macchina populistica che distribuisce oppio e brevi illusioni alla gente. Ma piuttosto che evocare il lato maligno, si tratta di valutare nel loro complesso gli effetti sociali e culturali che quest’altra scena produce, perché il calcio ci permette incontestabilmente di comunicare tra noi in modo più rapido ed efficace, senza giri di parole e infingimenti. Lo ammetto anche se un po’ a denti stretti. Preferisco infatti altri sport dove il giocare non venga completamente assorbito dall’agonismo: tuttavia trovo fuori luogo il tono moralistico che a volte sento levarsi. Come non vedere che le metafore calcistiche rendono più spedite le nostre conversazioni, offrendo una specie di terreno comune, banale che sia, a esperienze che tendono a diventare sempre più lontane ed estranee? Quell’uomo che disegna nell’aria è appunto un arbitro che traccia con le mani una forma quadrata o rettangolare che richiama sommariamente uno schermo. Lo fa per avvisare i giocatori e il pubblico prima di avviarsi dai suoi “assistenti” per guardare il filmato. Ci siamo abituati a simili gesti curiosi (pensiamo, nel basket, al dito sotto il palmo della mano per sancire la richiesta di un minuto di sospensione), e ci avvezzeremo anche a chi disegna quadrati nell’aria.Forse, però, nonostante tutto il parlare di moviola, faremo fatica ad abituarci all’idea che gli occhi sbagliano, mentre la ripetizione tecnologica dell’evento conterrebbe tutta la verità. Una resistenza forse “troppo umana” ad accogliere un supposto dato oggettivo che dovrebbe far chiudere definitivamente le bocche, il che – a quanto pare – non avviene in modo così pacifico, anzi.Mi figuro una situazione litigiosa, pubblica o privata, che a un certo punto venga interrotta da uno dei litiganti che chiede che si vada a verificare un’affermazione appena fatta. Fantasia? Ma perché non potrebbe essere un’ipotesi fondata da applicare a ogni tipo di disputa? Temo che tale verifica tecnologica della verità ci soddisfi molto parzialmente. Nessuno si augura veramente che il (o la) Var diventi una pratica generalizzata, quasi vi si nascondesse un che di costrittivo e assai poco socializzante.
di Pier Aldo Rovatti (Il Piccolo, venerdì 22 dicembre 2017)

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