L'Olimpiade e l'apertura di Kim Jong-un

Da ostaggio a speranza. Da «maledetto il giorno che abbiamo scelto di venire qui» a possibilità di aprire porte finora sbarrate. La marcia di avvicinamento verso l’Olimpiade invernale di PyeongChang ha vissuto nelle ultime ore un’improvvisa metamorfosi. Kim Jong-un, il dittatore della Corea del Nord, nel discorso di Capodanno, oltre al minaccioso riferimento al «pulsante nucleare sulla scrivania», aveva infatti parlato in toni conciliativi dei Giochi organizzati dai vicini di casa: «Funzionari dei due Stati dovrebbero incontrarsi subito per parlare della partecipazione della delegazione del Nord». Detto fatto, la disponibilità è stata presa al volo dalla Corea del Sud, con data e luogo: il 9 gennaio, a un mese dalla cerimonia di apertura, vediamoci a Panmujeom. Una scelta non casuale. Siamo al confine, dove si firmò l’armistizio nel 1953 dopo una guerra di tre anni e quasi tre milioni di morti. Qui il primo obiettivo sarà quello di riaprire le porte ai due pattinatori di figura Ryom Tae-Ok e Kim Ju-Suk. La Corea del Nord, infatti, nonostante il forcing del Cio e dello stesso comitato organizzatore, aveva lasciato passare la scadenza senza formalizzare l’iscrizione della coppia qualificata sul ghiaccio. Ora il discorso di Kim e l’immediata risposta di Seul, riaprono – è proprio il caso di dirlo – i Giochi.
La diplomazia, soprattutto quando è sull’orlo del burrone, la storia ce lo dimostra, nasconde sempre qualche rischiosa trappola. La dietrologia è inevitabile di fronte a un quadrante coreano che si divide fra test e minacce a base di missili e sorprendenti sviolinate all’insegna del fairplay olimpico. Non scegliamo fra lo scetticismo di Trump e l’entusiasmo della Cina di fronte alla strana svolta di Kim. Ma è indubbio che il conto alla rovescia per i Giochi coreani abbia cambiato copione. Non più (o comunque non solo) nuttata da passare al più presto. Ma corridoio per riaprire canali diplomatici interrotti. E così i Giochi diventano un treno da non lasciar scappare: passato quello, spenti i riflettori, il rischio è che vada in prescrizione pure ogni forma di dialogo. Guai a illudersi dunque, ma occhio a non sottovalutare delle opportunità (sempre che non siano un bluff).
Diciamoci la verità. Lo sport, e l’Olimpiade, non possono da soli «inventare» la pace, ma sicuramente fare di tutto per favorirla. Anche con gesti semplici, apparentemente banali, ma simbolicamente fortissimi. Come il selfie di Rio de Janeiro, quando la ginnasta sud coreana Lee Eun-Ju e la sua collega nordcoreana Hong Un-Jong scattarono insieme un’immagine che fece storia. E che oggi potrebbe tornare di attualità.
Valerio Piccioni (La Gazzetta dello Sport, 3 gennaio 2018)

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