Anche il clan Maddaloni ha la sua baby gang, temutissima dagli avversari, che colleziona trionfi nelle categorie giovanili e programma già le Olimpiadi del 2024. Vista da Scampia, Napoli – martoriata dal fenomeno della violenza giovanile – ha ancora speranza. La si legge negli occhi dei figli piccoli del Maestro Gianni, ma anche in quelli dei suoi allievi di tutte le età e, perché no, degli ex detenuti che sono ai servizi sociali proprio alla Star Judo. Lì ti insegnano a cadere, ma se te lo meriti ti stendono sul tatami per darti una lezione. Quando sei a terra, però, ti rialzano. Tutto inizia dal saluto, la prima forma di rispetto. Ecco, passare un paio d’ore in palestra, in quella palestra, ti convince che gli scugnizzi non sono soltanto quelli con le armi in mano che assaltano coetanei e forze dell’ordine, sono anche giovani atleti che ogni giorno frequentano la scuola dello sport, che poi è la scuola della vita. L’ha frequentata per sei mesi pure uno dei ragazzini che ha aggredito a Chiaiano il 15enne Gaetano, cui è stata asportata la milza. Non tutti gli allievi recepiscono gli insegnamenti allo stesso modo.
Maestro Maddaloni, è più sorpreso, ferito o amareggiato dall’idea che un suo ragazzo facesse parte di questo branco?
«Sono ancor più motivato a portare avanti il percorso sociale e sportivo che abbiamo intrapreso da anni. Questo giovane è stato con me poco, evidentemente 6 mesi non sono bastati affinché riuscissi ad incidere».
Possibile sia solo questione di tempo?
«Sì, anche a giudicare da quanto invece è accaduto con il fratello maggiore che è stato con noi 2 anni e che adesso ha trovato un lavoro come barbiere. Sapesse quante volte l’ho steso sul tatami, però gli ha fatto bene. Ha capito il significato di andare al tappeto. Devo ammettere che avevo sbagliato: quando entrambi mi sono stati affidati dalla scuola perché il papà è stato qui ai servizi sociali, ero convinto che il più piccolo fosse meno difficile da gestire ed invece troppo presto è andato via imboccando un’altra strada, purtroppo sbagliata».
Lei dunque conosce bene la famiglia, ha sentito i genitori del ragazzo dopo quanto accaduto?
«Sì, ho grande complicità con la mamma che di sicuro è rimasta molto scossa da questa vicenda. L’ho chiamata e le ho detto che la mia palestra è sempre aperta per suo figlio piccolo. Da queste parti ci sono tanti cattivi esempi e qualche amico lo avrà condizionato, io credo che lo sport possa ancora “salvarlo”. Bisogna dare a lui, come a tanti ragazzi, dei modelli nuovi e diversi da quelli che vedono in tv».
Mica sarà tutta colpa di Gomorra?
«No, anzi vorrei mi si togliesse di dosso l’etichetta di quello che è contro Saviano. Piuttosto, io vorrei parlare con Saviano per chiedergli di raccontare le storie degli Abbagnale, di Sandro Cuomo, di Clemente Russo e di mio figlio Pino. Bisogna che vengano presi, loro sì, ad esempio dai giovani di Napoli perché trasmettono i valori puri dello sport: la sofferenza per le sconfitte, il sacrificio per arrivare alle grandi vittorie. Guardando alle loro storie i ragazzi delle cosiddette baby gang potrebbero essere stimolati a venire in palestra, ad andare in pedana o a salire sul ring. Oggi troppi vogliono solo salire su un trono in tv».
Cosa può fare lo sport per i ragazzi di Napoli?
«Questa città – è inutile nasconderlo – vive in un equilibrio sottile tra legalità e illegalità. Bisogna scegliere da che parte stare e questa scelta avviene già da piccoli, lo sport può aiutare a fare la scelta giusta se riesce ad entrare nelle scuole sin dalle elementari. Abbiamo presentato un programma contro il bullismo all’istituto Eugenio Montale qualche anno fa, lì i ragazzi fanno judo sin dalla tenera età e la dispersione scolastica è diminuita del 30%. Anche il figlio del boss a 5 anni può imparare delle regole attraverso la pratica della disciplina sportiva».
Sembra però mancare il rispetto delle istituzioni, questi ragazzini vanno per strada a provocare addirittura i militari. È possibile pensare che possano cambiare facendo sport?
«Serve anche la repressione, quando è necessaria. Però, qui ho un giovane che mi è stato affidato perché il papà è finito in carcere per legami con la camorra. Dopo 3 anni in palestra ha deciso che vuole fare il soldato».
Dunque, il suo è anche un appello alle istituzioni?
«Comune e Regione sono in crisi economica e hanno abbandonato i tanti educatori che ci sono per strada, non solo il sottoscritto. Lo sport è l’amico giusto da far conoscere e frequentare. Io in questi giovani, purtroppo, mi rivedo. Alla loro età lanciavo pietre contro le auto poi il judo mi ha insegnato a fare due passi indietro per potermi difendere e contrattaccare».
Quindi, bisogna giocare in contropiede?
«Esattamente, per questo dico provocatoriamente ai ragazzi di Napoli che i Maddaloni sono un clan e che anche noi abbiamo una baby gang. Voglio spiazzare chi mi ascolta, invitarli a venire da noi per allenarsi…alla legalità». C’è scritto così su una maglietta che Gianni consegna a fine intervista, una frase che è un beneaugurante messaggio di speranza.
Gianluca Monti, La Gazzetta dello Sport di venerdì 19 gennaio 2018
Maestro Maddaloni, è più sorpreso, ferito o amareggiato dall’idea che un suo ragazzo facesse parte di questo branco?
«Sono ancor più motivato a portare avanti il percorso sociale e sportivo che abbiamo intrapreso da anni. Questo giovane è stato con me poco, evidentemente 6 mesi non sono bastati affinché riuscissi ad incidere».
Possibile sia solo questione di tempo?
«Sì, anche a giudicare da quanto invece è accaduto con il fratello maggiore che è stato con noi 2 anni e che adesso ha trovato un lavoro come barbiere. Sapesse quante volte l’ho steso sul tatami, però gli ha fatto bene. Ha capito il significato di andare al tappeto. Devo ammettere che avevo sbagliato: quando entrambi mi sono stati affidati dalla scuola perché il papà è stato qui ai servizi sociali, ero convinto che il più piccolo fosse meno difficile da gestire ed invece troppo presto è andato via imboccando un’altra strada, purtroppo sbagliata».
Lei dunque conosce bene la famiglia, ha sentito i genitori del ragazzo dopo quanto accaduto?
«Sì, ho grande complicità con la mamma che di sicuro è rimasta molto scossa da questa vicenda. L’ho chiamata e le ho detto che la mia palestra è sempre aperta per suo figlio piccolo. Da queste parti ci sono tanti cattivi esempi e qualche amico lo avrà condizionato, io credo che lo sport possa ancora “salvarlo”. Bisogna dare a lui, come a tanti ragazzi, dei modelli nuovi e diversi da quelli che vedono in tv».
Mica sarà tutta colpa di Gomorra?
«No, anzi vorrei mi si togliesse di dosso l’etichetta di quello che è contro Saviano. Piuttosto, io vorrei parlare con Saviano per chiedergli di raccontare le storie degli Abbagnale, di Sandro Cuomo, di Clemente Russo e di mio figlio Pino. Bisogna che vengano presi, loro sì, ad esempio dai giovani di Napoli perché trasmettono i valori puri dello sport: la sofferenza per le sconfitte, il sacrificio per arrivare alle grandi vittorie. Guardando alle loro storie i ragazzi delle cosiddette baby gang potrebbero essere stimolati a venire in palestra, ad andare in pedana o a salire sul ring. Oggi troppi vogliono solo salire su un trono in tv».
Cosa può fare lo sport per i ragazzi di Napoli?
«Questa città – è inutile nasconderlo – vive in un equilibrio sottile tra legalità e illegalità. Bisogna scegliere da che parte stare e questa scelta avviene già da piccoli, lo sport può aiutare a fare la scelta giusta se riesce ad entrare nelle scuole sin dalle elementari. Abbiamo presentato un programma contro il bullismo all’istituto Eugenio Montale qualche anno fa, lì i ragazzi fanno judo sin dalla tenera età e la dispersione scolastica è diminuita del 30%. Anche il figlio del boss a 5 anni può imparare delle regole attraverso la pratica della disciplina sportiva».
Sembra però mancare il rispetto delle istituzioni, questi ragazzini vanno per strada a provocare addirittura i militari. È possibile pensare che possano cambiare facendo sport?
«Serve anche la repressione, quando è necessaria. Però, qui ho un giovane che mi è stato affidato perché il papà è finito in carcere per legami con la camorra. Dopo 3 anni in palestra ha deciso che vuole fare il soldato».
Dunque, il suo è anche un appello alle istituzioni?
«Comune e Regione sono in crisi economica e hanno abbandonato i tanti educatori che ci sono per strada, non solo il sottoscritto. Lo sport è l’amico giusto da far conoscere e frequentare. Io in questi giovani, purtroppo, mi rivedo. Alla loro età lanciavo pietre contro le auto poi il judo mi ha insegnato a fare due passi indietro per potermi difendere e contrattaccare».
Quindi, bisogna giocare in contropiede?
«Esattamente, per questo dico provocatoriamente ai ragazzi di Napoli che i Maddaloni sono un clan e che anche noi abbiamo una baby gang. Voglio spiazzare chi mi ascolta, invitarli a venire da noi per allenarsi…alla legalità». C’è scritto così su una maglietta che Gianni consegna a fine intervista, una frase che è un beneaugurante messaggio di speranza.
Gianluca Monti, La Gazzetta dello Sport di venerdì 19 gennaio 2018