In bici, in campo, in pista. O cedi o ci provi.

Negli ultimi due giorni è stato diffuso sui social network un video girato dalla squadra dilettante Team Unicash Due C, durante la “Coppa Paolo Bettini – 2° Trofeo Maglificio On Sport“, in Toscana. Nel video si vede il direttore sportivo incitare due ragazzi della squadra Juniores che escono dal gruppo e affiancano l’ammiraglia. Il DS parla con i due, entrambi molto infreddoliti: al primo consiglia di «mettere un rapporto agile e far girare le gambe» per non imballarsi di fatica e per farsi passare il freddo; al secondo, che gli dice di avere freddo, dà invece una definizione concisa di che tipo di sport sia il ciclismo. Grinta ci vuole! Grinta! È uno sport di merda!
Ora qui la retorica ci prenderebbe per mano e ci porterebbe subito a parlare di eroi – i giovani atleti quanto l’allenatore -, di motivazione, sudore e fango. Ma non c’è niente di tutto questo.
La realtà è che è tutto normale.
Quella del video è semplice educazione sportiva: l’allenatore, che nel momento critico conta più di tuo padre, fa maieutica, tira fuori quello che hanno dentro. Lui lo sa, e infatti usa toni diversi per ognuno: col primo è quasi comprensivo, ricorda di fare “come in allenamento”, per ricondurre nella testa la situazione di gara a un ambiente controllato e privo di tensione come l’allenamento, appunto. Col secondo invece è sferzante e duro, sarcastico pure. Hai freddo? te lo tieni: vai a tirare, gli dice. Davanti al gruppo non c’è nessuna ruota a bagnarti la faccia, il cuore batte più forte e la testa pensa al ritmo.
Poi, come in un film, sarà un loro compagno a vincere la corsa.
E quindi? Un allenatore che incita un atleta, anche duramente, è una cosa davvero banale. Anzi, sarebbe grave il contrario. È che questa banalità oggi, domani in allenamento, poi nella prossima gara, alla fine costruisce un uomo, se l’atleta ascolta. A prescindere dal contenuto del messaggio: grinta o non grinta, coraggio o concentrazione, poi la corsa finisce, ma quel momento di crisi resta. Ti fai una doccia, ti asciughi, riassapori la comodità di una tuta in acetato infeltrita e lisa, festeggi con i compagni e torni a casa. In macchina di altri, magari, perché i tuoi lavorano anche il sabato. E ci ripensi e ti chiedi dov’era quel freddo che ora è sparito, e ti rendi conto che stavi per mollare (o per limitarti a fare il compitino, che non fa differenza), e invece ne avevi ancora. Chi te l’ha fatto fare? Hai 16, 18 anni e potresti essere in centro a fare le vasche. Perché lo fai? “Boh”, ti rispondi. Non sogni Nibali, non sogni Sagan, non sogni nessuno in quel momento: lo fai perché lo fai. Ci sono cose che non hanno una spiegazione ed è giusto così.
È che non lo sai ancora ma ti farà diventare una persona migliore, se non ti dimenticherai di questo momento. Perché dove tutto è misurato con una prestazione, e per quella prestazione verrai giudicato perché il mondo va a rotoli ed è un numero che devi produrre, sempre, tu lo sai che sei lì con i testicoli addormentati a cercare di sentire le dita dei piedi; lo sai che sei lì ad abbassare la testa e guardare il deragliatore gracchiare sulla catena prima di decidersi a passare di corona; che sei lì a guardare il pattino del freno per vedere se tocca perché ti senti frenato ed invece è solo la fatica, quella. Poi arrivi e perdi anche, dato che su 150 uno solo arriva primo, ma tu non sei la tua prestazione: tu sei tu. Tu sei quello che col freddo è andato a tirare.
Vale per il ciclismo come per tutti gli altri sport. Ti viene quasi da piangere quando ce l’hai scritto nei brufoli che hai 14 anni e l’avversario “pari-età” che devi marcare viene dall’Africa centrale e magari ha visto la guerra, ha la barba e i peli sulle gambe, è 20cm più alto di te e continua a saltarti via come un birillo. E ti ride in faccia. E segna.
O cedi o ci provi.
In bici, in campo, in pista. O cedi o ci provi.
Nella vita reale non esiste situazione paragonabile, con così ampio margine d’errore e indifferenza del risultato, allo sport, soprattutto quello giovanile in cui i successi e le sconfitte sono per natura relativi. Non esiste altro contesto dove puoi essere esposto a questi input senza rischi e senza che nessuno chieda conto del risultato.
Ci piace lo sport da praticare perché vogliamo dare tutto, e ci piace quello da vedere perché a dare tutto devi essere tu atleta. Abbiamo in odio il pressapochismo, la remissività o l’arrendevolezza. E non le devi volere nemmeno tu, perché se ti fermi e metti le mani sul quarto ostacolo di una 400H perché gli avversari ti hanno già superato, che uomo sei? Che uomo sei? Arriva fino in fondo. Puoi perdere, ma non puoi essere un vile. Se non lo fai per te, almeno rispetta la parola: se scendi in campo dai la parola che non ti arrenderai, e quindi se hai freddo vai davanti a tirare. Molto probabilmente perderai, ma in campo c’è l’avversario che può anche essere più forte di te. Semplicemente. Ma se non hai dato il massimo per fare il tuo dovere, cosa sei venuto a fare? Stai a casa, lo sport non è per tutti. Lo sport è una merda. Lo sport è bellissimo.
Alberto Girardello – RivistaContrasti.it

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