In greco la parola “mito” sta a significare discorso, motto, per estensione indica un racconto favoloso, una leggenda. Le favole di Esòpo terminano sempre con “la favola insegna che…”.
Così gli antichi crescevano i loro figli attraverso i miti e il racconto di storie e leggende che insegnassero ai giovani a conoscere da una parte la realtà al di fuori di sé (l’interpretazione dei segni atmosferici ad esempio) e dall’altra ciò che accade dentro di ognuno, l’emozioni e i sentimenti.
Perciò i Greci inventarono un Olimpo rappresentativo di ciò che incarnava tutte le passioni umane, Zeus la potenza, Atena l’intelligenza, Afrodite la sessualità, Dioniso la follia, Ares l’aggressività…attraverso questo l’uomo cresceva sapendo cosa è sacro e cosa è malvagio, le cose da fare e quelle da non fare.
Nella crescita il bambino conosce per primo l’impulso, un retaggio forse di un istinto geneticamente sbiadito, azione senza pensiero, non c’è dentro un linguaggio, è puro gesto senza un mediatore. Poi impara a riconoscere le emozioni per metà sono naturali e per metà culturali (le emozioni sono una risonanza emotiva che si avverte attraverso i pensieri e le azioni che si compiono). Solamente più tardi il gruppo, la tribù o la società gli insegnerà, attraversi miti e leggende, la complessa natura dei sentimenti, ciò fa sì che si inneschino due risposte. Da una parte egli sperimenta che è non è l’unico a provare certe sensazioni e si prepara a una ventaglio direazioni, dall’altra egli incomincia a modellare la sua identità, sulla base di come si sente percepito dagli altri del gruppo.
(La nostra identità si forma anche in base alla percezione dello sguardo restituito dall’altro).
E così vale la storia di Epimèteo e Promèteo per i greci, Brahama, Vishnu e Shiva per gli indiani, la storia di Amaterasu che non vuole uscire dalla grotta nel caso dei nipponici.
In questo modo si creavano delle precondizioni che aiutavano piano piano il ragazzo a fornirsi di un’esperienza critica e a poter leggere la realtà creandosi una chiave interpretativa.
Oggi cosa abbiamo che ci introduce nella realtà? O forse sarebbe meglio dire quale è la realtà? Quella che tradizionalmente appare quotidiana oppure quella virtuale? E’ più reale la vita fuori dalla rete o quella nella rete?
Possono essere ancora attuali i miti….? Non credo più come un tempo (mi preme sottolineare che volutamente mi tengo fuori da ogni considerazione di tipo religioso o dogmatico).
Già nel 800 la narrativa aveva sostituito la funzione del mito e dei suoi racconti. Era nei romanzi, attraverso il pianto e il riso, che avveniva il passaggio di informazioni, di storie, tragedie, amori, drammi che aiutavano a conoscere e a leggere la realtà.
Credo che anche il judo possa essere un buon sostituto del mito.
Oggi non abbiamo nessun certezza ferma o parametri stabili, tutto sembra essere possibile e permesso, tutto e il contrario di tutto. Nel judo rimangono degli argini fissi in cui muoversi con grande libertà e un terreno primordiale da ripercorrere che ci può risvegliare da tutta questa “virtualità”. Cosa c’è di più elementare e reale di una lotta, simbolico gesto ancestrale, figlio della nostra memoria primitiva? E cos’è il judo se non un comportamento antisociale ritualizzato? Dove è ammesso, anzi istigato, un ragazzo, a lanciare un compagno a terra per magari poi strangolarlo? Nel
contesto del jita-kyoei (tutti insieme per il mutuo interesse) non solo è permesso ma addirittura ritenuto educativo.
Tutto ciò che riguarda i giovani è formazione, tutto quello che riguarda i non più giovani è educazione permanente. Come si può insegnare il senso del rispetto, dell’amicizia, del coraggio, dell’impegno, della fiducia in sé stessi? Se ne può parlare? Si, forse, ma è più importante che ogni lezione di judo ruoti su questi concetti; è più importante recuperare il potenziale educativo del judo e trasmetterlo ad ogni livello.
E si ritorna a lavorare sull’impulso, perché solo lavorando sull’azione (gesto + l’idea) si va a limitare l’impulso. A mio modo di vedere, semplicemente, le nostre azioni contengono dei pensieri, delle logiche (ho fatto questo per questo motivo, preferisco fare quest’altro per quest’altro motivo ecc…) se il pensiero non si traduce in azione non è nulla, è solo una distorsione della mente, un offuscamento. Lavorando sulle azioni e sulla loro logica teniamo a freno gli impulsi, per questo fare molto judo abbassa l’aggressività, perché lavora sulle azioni.
Anche le emozioni sono al centro di un grosso lavoro, il ràndori consegna la tranquillità su cui poter costruire attacchi e difese. La gara, più avanti, farà sperimentare la gestione delle emozioni in modo molto vicino a quello dell’uomo nella foresta, a contatto dei pericoli. Così il ragazzo ripercorre la sua origine profonda, esce dal porto con la sua barchetta e affronta la tempesta e l’avventura che ne consegue (un possibile etimo della parola sport sarebbe ex-port, fuori dal porto).
E se tutto questo non fosse sufficiente, un grosso stimolo ce lo fornisce il sei ryoku ze’yo (miglior impiego delle energie), che in realtà contiene in sé il principio del “tutti insieme per il mutuo interesse”. Quante volte facciamo dei lavori senza essere nella posizione giusta? Quante volte ci buttiamo in modo incosciente senza pensare? Mettere in pratica il principio del miglior impiego delle energie è molto semplice, basta cercare di applicare il principio (semplice non è facile, c’è una bella differenza tra le due parole…).
Il miglior impiego delle energie basta cercarlo e ce l’abbiamo con noi, ci accompagna e ci segue nella vita, creandoci un piccolo distacco tra noi e la realtà, permette di salvarci dal caos della mente e previene molti infortuni, è il qui ora!
Infine i sentimenti, se non mi allontano dal judo qualcosa mi rimane addosso. Sono cresciuto e assieme a me il judo, sento l’impulso di fare qualcosa per gli altri, non per misericordia ma per restituire quel molto che ho avuto dal judo. Il judo lascia buoni ricordi e fa dimenticare le cose brutte subite. Ci sono genitori che portano il loro bambino e lo affidano a te, maestro di judo, dicendo…”Lo sa?… anch’io ho fatto judo da bambino…sono arrivato a cintura arancione…” e sorridono per i sorrisi che hanno fatto molti anni prima assieme ad amici quando tutto doveva ancora avere inizio. I sentimenti sono la nostra vera identità, il nostro riscatto verso l’inconsistenza della nostra vita. Inconsistenza che non possiamo superare se non attraverso il lavoro con altri per un interesse non personale ma rivolto a tutto il resto, bambini, persone, piante, animali, terra, mondi e chissà cos’altro…
Tutto ciò che ho scritto contiene una personale visione del metodo judo e del pensiero di Kano Shihan; non ho nessun intento di affermare che il judo è questo o solo questo, tutto ciò è un mio personale punto di vista. Alessandro Giorgi