Niccolò Campriani “Contro il virus gli atleti diano coraggio alla società”

Lui sa cosa significa: attesa, paura, orizzonte che scompare. Lui ci è cascato, nel pozzo della delusione. Ma ne è anche risalito. E da Losanna dove lavora al Cio (tutti in smart working) prova a riflettere su come gli atleti possano far lavorare cuore e cervello insieme. Anche perché domani il presidente Bach si metterà in contatto con le federazioni internazionali sulle qualificazioni olimpiche. Niccolò Campriani, 32 anni, 3 ori olimpici (2012-2016) e un argento (2012) nel tiro, nelle specialità di carabina del tiro a segno, e nel tempo libero capo del team della squadra dei rifugiati, nella stessa specialità.

Lei per 10 anni si è allenato per i Giochi.

«Sì, e so cosa vuol dire prepararsi e vivere una vigilia olimpica. Puoi viverla bene o male. E non dipende dal talento o dalla grinta. Io avevo entrambi, volevo spaccare il mondo e invece il mondo ha spaccato me. Ho fallito l’oro a Pechino 2008 all’ultimo colpo. Quando hai 40 secondi per mirare, il bersaglio diventa minuscolo, e quel colpo non diventa più umano. È troppo pieno di tutto».

Mancò il bersaglio per 3,34 millimetri: lo spessore di due monetine da un centesimo.

«È stato il mio sbaglio: identificarmi con quell’ultimo tiro. È un errore che a Londra non ho fatto più, mi sono detto: ho lavorato al meglio, è solo una gara, non è in gioco il mio valore di persona né la mia autostima. Quindi mettete attenzione su quello che potete controllare, su quello che dipende da voi e non sul resto. Nel mio sport c’è un’alta componente meccanica, se inizio a non avere più fiducia su chi li ha assemblati o sulla calibratura ecco che cado nel pozzo».

Il consiglio agli atleti è: concentratevi su Tokyo?

«No. Perché così diventi un toro che alla parola Olimpiade vede rosso. Lo sportivo deve essere capace di fare cinque passi indietro in certe situazioni, deve guardare al mondo come persona e non come uno che vive in una bolla, rimuginando su tutto quello che doveva essere e non è. Ho molto apprezzato le parole del presidente Malagò. In questo momento ci sono altre priorità».

Facile dirlo quando si è smesso da golden boy .

«Siamo tutti in gioco. E il primo passo importante è l’accettazione della realtà. Paura e ansia fanno parte di noi, possiamo controllarle, non eliminarle. La paura fa 90, ma l’intelligenza fa 100. Gli atleti hanno un ruolo, non solo sul campo di gara. Quando sono tornato in Italia dopo Rio 2016 c’era chi mi fermava per dirmi congratulazioni e chi grazie. Questi ultimi mi hanno fatto sentire parte di una comunità, lo sport è un viaggio dove alla fine tu restituisci qualcosa agli altri: a tuo padre che da piccolo ti ha accompagnato nelle trasferte, agli amici che ti hanno sostenuto, a tutti quelli che in vari modi ti hanno seguito. Nel gesto di un campione non c’è solo fisicità, ma anche spiritualità. Il valore di una medaglia è nel viaggio che hai fatto per conquistarlo e in quello ci stanno tutte le occasioni che ti ha offerto lo sport, dai compagni alla borsa di studio».

L’americano Emmons sia ad Atene che a Pechino mancò l’oro all’ultimo colpo.

«Nel 2004 colpì il bersaglio, ma era quello del suo avversario, e a Pechino fece il bis, quando il colpo gli partì accidentalmente mentre prendeva la mira. Era sotto shock ma dopo dieci minuti era lì a rilasciare interviste, dicendo cose molte sensate, quasi zen. Emmons mi ha insegnato a perdere, condizione necessaria per imparare a vincere. Non voglio fare il maestro di nessuno, ma in una vigilia olimpica tra mirino e bersaglio ci sono aria, distanza e paura: di fallire e di deludere se stessi. Meglio non metterci sopra altre incertezze».

Mancano 130 giorni a Tokyo 2020: modalità stand-by?

«Bisogna continuare a crederci: il 24 luglio iniziano i Giochi. Chiamatela fede, speranza, karma. Anche gli atei credono nell’essere atei. Agli atleti dico: concentratevi sulla quotidianità, non smettete di alimentare le vostre batterie, mantenete le energie, abbiate capacità di screening, cercate spunti originali. Quando lo sport riprenderà, fatevi trovare carichi, con le vostre scintille emotive attive. Cercate di vedere in prospettiva come può essere utile al futuro questo disagio. Non mentite a voi stessi, lo stress di tirare l’ultimo colpo trascende la razionalità, non cercate scuse. Le paure vanno rispettate, ascoltate, gestite. Non c’è un piano B contro l’angoscia, ma se sei uno sportivo devi avere e restituire coraggio alla comunità, perché in questo momento è la società che ha bisogno di noi. E noi dobbiamo valutare l’effetto e l’affetto che abbiamo verso gli altri. Questo virus è un test per le nostre vite».

I suoi atleti hanno ottenuto il minimo per Tokyo.

«Sì con il team dei rifugiati abbiamo fatto in tempo a qualificarci prima che la diffusione del virus bloccasse tutto. Mahdi che viene dall’Afghanistan e Khaoula, che arriva dalla Palestina e ha un bimbo di un anno, hanno centrato il minimo. Ora bisognerà vedere cosa decide il Cio sulle assegnazioni».

Aiuta che dentro al Cio ci sia un dipartimento-atleti?

«Ritorna il discorso di poter restituire qualcosa indietro. Lo dice uno che da atleta è stato un rompiscatole, ha fatto scioperi contro il sistema, che s’innervosisce davanti alla burocrazia, che sopporta a fatica il compromesso. Ma se vogliamo provare a cambiare le cose che non ci piacciono dobbiamo impegnarci. Tra provare e fallire in mezzo c’è il fallire di provare. Per questo dico: se ci saranno le condizioni Tokyo avrà ancora più sapore e significato. Sarà l’Olimpiade della rinascita. Mai come oggi il mondo ha bisogno dei Giochi».

Emanuela Audisio – La Repubblica lunedì 16 marzo 2020

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