Guardatele queste foto, guardatele bene, e osservate i segni sui volti, i lividi marchiati dalle maschere di gomma, le occhiaie scure da sonno perduto, gli occhi senza luce, che parlano asciutti con la voce dello sgomento e della fatica, e guardate quelle mani ferite, macerate dal sudore dei guanti di gomma, che riflettono e urlano il dolore, il dramma e la tragedia che stiamo vivendo.
Queste immagini sono state postate sui social dai nostri medici e dai nostri infermieri dalle loro trincee, dai reparti di Terapia Intensiva dedicati agli ammalati di Coronavirus, dove si respira l’odore del disinfettante, dove si ascoltano i pianti, i lamenti e i rantoli, il soffio ritmico dei ventilatori polmonari, i bip sonori dei ventilatori cardiaci, in una atmosfera sospesa e rarefatta, quasi artificiale, che somiglia a quella di tanti film di fantascienza, ma che è purtroppo maledettamente reale, popolata da una fila infinita di ammalati, uno accanto all’altro distesi immobili nei loro letti, sprofondati nello stesso destino infettivo, alcuni in affanno, altri intubati, sedati o pronati, tutti attaccati alla flebo e ai tubi dei respiratori automatici, quegli stessi tubi che tentano di strapparli alla morte e tenerli in vita con un filo di speranza.
Tutti questi ammalati, è bene ricordarlo, vivono la loro condizione nello sconcerto più totale, piangendo e pregando in drammatica solitudine, senza la possibilità, per il rischio infettivo, di avere accanto un familiare o una persona cara che stringa loro la mano, che gli parli, che dia loro coraggio, che li accarezzi e li conforti con un sorriso consolatorio, quello stesso sorriso che non sono in grado di ricevere nemmeno da chi si prende cura di loro, poiché tutti gli operatori sanitari si aggirano attorno a quei giacigli senza avere un volto o un’identità, mascherati come degli automatici robot dai quali escono voci filtrate e metalliche, estranee alla loro vita, le stesse che assistono al loro ultimo respiro, che ne annunciano il decesso, e che liberano il posto letto per quelli che sono in attesa.
Ecco perché quelle immagini postate in rete, immediatamente diventate virali, dovrebbero essere guardate tre volte al giorno, come fossero una terapia quotidiana, da tutti coloro che da mattina a sera si lamentano della quarantena obbligatoria, che non sanno come passare il tempo, che si scocciano a restare sdraiati sul divano di fronte alla tv, oppure a cucinare cibi che attentano alla loro linea, oziando da una stanza all’altra protetti e sicuri nelle loro case. A tutte queste persone sane, fortunatamente non infettate e non contagiate, che manifestano in ogni modo la voglia incontenibile di uscire, che si ribellano, che vogliono andare nei parchi o rimpiangono l’aperitivo e le cene con gli amici, non consiglio di raggiungere un vicino centro di rianimazione per guardare dal vivo il girone dantesco dei disperati e sentire l’odore dell’inferno che li circonda, che pure sarebbe utile e definitivo, ma semplicemente di riflettere sulle immagini ritratte in questa pagina, sull’emozione senza fine che trasmettono, per poter godere della propria incolumità, per custodire la propria salute fisica e sentirsi estremamente fortunati di essere al riparo dal pericolo numero uno di queste settimane.
E consiglio anche di memorizzare quelle immagini, di fissarle ed imprimerle nella memoria, per rievocarle ogni volta che si viene assaliti dalla stupidità e dall’ignoranza, dalla superficialità e dall’arroganza, dalla voglia di evadere alla ricerca dell’affettività e della socialità sospesa, per non sentirsi soli, mentre, in quello stesso momento, migliaia di medici e paramedici mettono a rischio la propria vita, fisica e psicologica, con turni massacranti di 8/12 ore senza sosta, infilati in tute contenitive e claustrofobiche che li coprono dalla testa ai piedi, ogni giorno sperando e invocando di non essere attaccati dalle centinaia di virus che escono dai corpi dei loro pazienti e che lo circondano, li assediano, sempre pronti ad infilarsi in qualche pertugio tra la maschera e gli occhiali, tenuti sempre ben compressi e sigillati sui loro volti, ove lasciano segni indelebili.
E tutti questi professionisti del settore, restano volontariamente rinchiusi negli ospedali notte e giorno, stremati dall’esperienza emotiva e dalla loro pericolosa permanenza senza fine in quegli ambienti, e lo fanno per tutelare la salute fisica, e soprattutto quella mentale, anche di chi è rimasto fuori, di chi si ritiene rinchiuso agli arresti domiciliari, di chi è ancora indenne dall’infezione virale e che si lamenta perché non vede l’ora di uscire per andare incontro al virus.
Oggi in Italia siamo solo al settimo giorno di quarantena, e ne rimangono almeno altrettanti se non di più da sopportare, per diminuire il contagio e sconfiggere il Coronavirus, ma la buona notizia è che la Regione Lombardia, con a capo il Governatore Attilio Fontana, in dieci giorni realizzerà ed allestirà un ospedale provvisorio dedicato al Covid19 di 500 posti letto di Terapia Intensiva presso la Fiera di Milano, al Portello, per accogliere, accudire, curare altrettanti pazienti di ogni regione che in questi giorni si infetteranno perché non riescono proprio a stare a casa. Avanti c’è posto.
Melania Rizzoli – Libero mercoledì 18 marzo 2020