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Lo sport è come un orologio, il virus gli ha tolto le lancette

Quando i terroristi palestinesi entrarono nel villaggio Olimpico di Monaco nel 1972, uccisero e rapirono degli atleti israeliani, il mondo si interrogò sulla opportunità di fermare o no i Giochi olimpici. Ricordo le immagini di un servizio di Maurizio Barendson al telegiornale delle 13.30 in cui, con un telefono satellitare al posto del microfono, raccontava, con coraggio giornalistico e civile, il suo dissenso rispetto alla decisione del Cio di proseguire lo stesso le gare. Le Olimpiadi, lo sappiamo, si sono fermate solo nel 1916, per la Prima guerra mondiale e poi nel 1940 e nel 1944 per il secondo conflitto. Nonostante le richieste di boicottaggio i Giochi olimpici furono svolti nel 1936 in Germania e inaugurati dall’uomo che, di lì a tre anni, avrebbe invaso la Polonia e poi dato vita alla più grande tragedia del Novecento. Nulla di più assurdo. Ma per il resto si sono sempre svolti. Sempre in date precise. Definite con anni di anticipo. Lo sport è un orologio, e lo sport moderno, quello dei media, ancora di più. Non esiste fluidità possibile per un mondo che è fatto di organizzazione, calendari, appuntamenti definiti. Improvvisamente questa crisi, drammatica e globale, ha separato sport e tempo, li ha resi indipendenti. E così li ha annientati. Mai nella storia umana si è fermato tutto lo sport del mondo. Quello da vedere e quello da fare. Mai, davvero mai, è stata negata, da circostanze obiettive, la possibilità per un essere umano di correre, tirare calci a un pallone, andare in bicicletta o di vedere, semplicemente vedere, la sua disciplina e i suoi eroi preferiti in televisione o allo stadio. Né vedere, né fare: sembrano i precetti di un severo collegio religioso ad adolescenti in tempo di turbamento. La società da liquida è diventata gassosa. In poche settimane la nostra vita ha dilatato i suoi tempi e li ha resi flessibili. Lo sport ha bisogno di seguire il suo calendario che, per chi lo ama, si sovrappone a quello reale. Si sa che i campionati Mondiali di calcio si svolgono ogni quattro anni, che a metà del periodo si tengono gli europei, nello stesso anno delle Olimpiadi. Si sa quando inizia la stagione di Formula uno o del MotoGP e quando i grandi tornei di tennis. Si sa l’inizio e la fine della Champions e quello del Sei Nazioni di rugby o dell’Nba.

Chi ama questi sport, e li considera parte non insignificante della propria vita, scrive – devo dire scriveva?- le date degli appuntamenti sulla propria agenda, in modo da non perderli e, nella misura del possibile, di tenerli come riferimento per i propri impegni. La rigidità del tempo dello sport è la condizione della sua stessa esistenza.

Quest’anno, come succede ogni quattro, si presentava un’ estate da favola, con Europei e Giochi di Tokyo da vivere, uno dopo l’altro. Invece nulla di tutto questo. Non sappiamo quando potremo tornare a poter vivere o, anche solo a vedere, delle persone che – separate da una rete, o incolonnate in corsie di una piscina o di una pista di atletica – cercano di superare altri o se stessi.

Non sappiamo quando ci sarà il calciomercato, cosa sarà del campionato di calcio. Ma soprattutto cosa troveremo del grande luna park dello sport, quando usciremo dalle nostre case e torneremo a vedere il sole. Bisognerà tornare a organizzare le date, gli orari, sapendo che all’ordine tradizionale si è sostituito il caos. Se le Olimpiadi e gli Europei si svolgeranno in un anno dispari, cosa accadrà delle altre manifestazioni?

Siamo in una terra sconosciuta. I nostri orologi seguono un fuso orario diverso da quello della realtà che questo incubo ci impone. Ma lo sport è un orologio. Riportare le lancette del tempo ad avere un ordine razionale sarà una delle tante cose da fare. Certo non la più importante. Però dopo avremo bisogno di sorridere e di abbracciarci per un nonnulla. E non vediamo l’ora di poterlo fare, di ritrovare quella normalità che ci sembrava noiosa.

Domani, presto.

Walter Veltroni – La Gazzetta dello Sport martedì 24 marzo 2020

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