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Day 2 – Go Tsunoda: judoka giramondo tra ricerca del “do” e pratica dell’empatia

Giramondo del judo, Maestro di livello sopraffino, esperto IJF, spettacolare nel suo modo di praticare judo, padre di una delle migliori atlete spagnole di questi anni, Ai Tsunoda, in rampa di lancio per Parigi 2024: che cosa si può dire di Go Tsunoda che non sia già stato detto?

  1. Com’è iniziata la sua carriera come insegnante di judo?

A ventiquattro anni [n.d.r. ora ne ha 52] ho lasciato il Giappone, posso dire che non me ne sono andato con la presunzione di dire “io sono un judoka e vado a conquistare il Mondo!”, è stato più come se fossi caduto fuori dal Giappone –ride- e fossi arrivato in Francia e, nel giro di tre anni, ho girato praticamente tutto il Paese in judogi. Poi, dopo che ho conosciuto mia moglie e abbiamo iniziato la nostra relazione, siamo andati in Spagna e lì ho insegnato per due anni judo in un club. Diciamo che il cambiamento è avvenuto poco a poco: all’inizio avevo scelto di venire in Europa per me, di certo non per insegnare il judo ad altri! Non avevo risultati agonistici né medaglie da esibire, non avevo soldi da investire… ero spinto dalla mia curiosità per la vita e tanto amore per il judo. Dopo aver lavorato per tre anni in questo club in Spagna, ho parlato con quella che nel frattempo era diventata mia moglie e ho deciso di essere pronto per aprire il mio club: era l’inizio degli anni 2000. Non facevamo altro: vivevamo letteralmente per il judo, nessun’altra attività. Ci allenavamo nel club, dormivamo nel club.  Così posso dire che ho lavorato ormai all’incirca trent’anni nel judo, ho aperto il mio club ed è stato a quel punto che mi sono detto: “ok, la mia vita è il judo”.

Credo fosse il 2009 quando ho iniziato come allenatore della nazionale olimpica inglese in vista delle Olimpiadi di Londra 2012. Ho ringraziato ovviamente per l’opportunità e ho iniziato questa grande esperienza. Quando sono passate quelle Olimpiadi, è stato il Portogallo a chiamarmi e io ho accettato, riconoscente e lì ho lavorato fino al 2019. Dopo è arrivato il Covid, che in Spagna è stato trattato in maniera molto severa: non si poteva uscire di casa e ho pensato che non avevo intenzione di fermarmi con l’attività del judo e che era proprio una fortuna quella di avere un club privato! Certo, abbiamo dovuto muoverci un po’ come dei ninja e coinvolgere soltanto la nostra famiglia, ma raggiungevamo il club e potevamo allenarci. Poi anche quello è diventato difficile, così abbiamo deciso di ricreare un piccolo dojo in casa nostra, sfruttando il giardino: certo, non che si potesse fare chissà che, però potevamo comunque, con pochi tatami, continuare ad allenarci in qualche modo! Il mio pensiero era di non smettere di praticare judo: abbiamo continuato a fare randori. È stato fondamentale perché di lì a poco mia figlia Ai ha iniziato a partecipare a delle competizioni internazionali, conquistando i primi risultati importanti.

  • Maestro, Lei ha girato il Mondo e ha allenato diverse nazionali europee: nella Sua percezione, qual è la qualità del judo nei Paesi in cui ha insegnato?

Lo stile del judo e le scuole di judo sono differenti in ogni Paese, questo è senz’altro vero, ma non posso non sottolineare che ciò che accomuna tutti i Paesi che ho visitato è la voglia di cercare di migliorarsi, che è ciò che determina la qualità: Spagna, Giappone, Francia, Gran Bretagna… ovunque sono stato ho trovato lo stesso sentimento di fondo e un’ottima qualità di judo. Ciò che mi sento di dire è che il sistema che ho trovato in Europa è diverso da quello orientale- giapponese, perché noi impariamo fin da piccoli, a scuola, le regole, il sistema che poi è alla base del judo: tutto è, in qualche modo, collegato. In Europa il concetto è diverso alla base: si fanno determinate cose perché te le insegnano nel club, non perché nascono da un atteggiamento che ci si porta dietro fin da piccolissimi.

  • Lei è venuto al Winter Camp più volte: quali differenze coglie rispetto a passate edizioni alle quali ha preso parte?

Be’, la prima cosa che mi viene da dire è che quest’anno c’è una quantità impressionante di gente! Quest’anno, inoltre, ho visto una differenza nell’età: meno ragazzini giovanissimi e moltissimi cadetti e adulti. Del resto, è uno stage fondamentale in cui iniziare l’anno nuovo: la gente con reale motivazione si trova qui! Qui c’è molta gente che partecipa alle competizioni e sanno benissimo che, se anche in gara ci sono soltanto sei judoka, le medaglie disponibili alla fine sono sempre tre! Questo è ciò che intendo quando parlo di motivazione: c’è chi si ferma al fatto che è stato convocato in una squadra nazionale o che ha vinto qualche gara, che è contento con i primi risultati e chi, invece, non riesce a fermarsi lì e ad accontentarsi e dice: “no, io voglio di più!”. La curiosità e la voglia di continuare a migliorarsi e a imparare è ciò che guida questo atteggiamento: non ho mai finito, voglio imparare di più, voglio andare più lontano. È questo l’atteggiamento di cui un buon judoka ha bisogno. Non posso darmi il lusso di pensare che sono già arrivato e che ho imparato tutto quello che c’era da imparare. Eppure di judoka così ce ne sono tantissimi.

  • Qui al Winter Camp è venuto anche con sua figlia Ai: come vive la sua corsa verso Parigi 2024?

Né io né mia moglie corriamo dietro a lei a ogni sua medaglia. Il nostro atteggiamento comune è di dire: non pensare alle Olimpiadi come se la gara fosse domani. Oggi hai conquistato una medaglia, ma domani devi comunque tornare nel dojo e ricominciare a lavorare come nulla fosse, dando nuovamente il 100 %! Il miglioramento deve avvenire ogni giorno, in modo che domani io non mi trovi allo stesso posto di oggi. Per questo abbiamo deciso di comune accordo di insegnarle a non cercare mai le responsabilità dei suoi eventuali insuccessi all’infuori di lei stessa: a volte ci si lamenta delle condizioni di allenamento, dell’uke che non è quello giusto, di qualunque cosa… sì, vinciamo, perdiamo, però tutto dipende da noi! Questo è judo. L’arma migliore che noi lasciamo al nostro avversario è la nostra debolezza. Per quanto mi riguarda, il mio atteggiamento è che non so che cosa succederà a Parigi: quando arriverà Parigi penseremo a dove siamo. Fino a quel momento, continua ad allenarsi giorno per giorno, senza domandarci se arriverà una medaglia o che cosa succederà.

  • Che cosa manca al judo moderno e che cosa ha invece conquistato rispetto al passato?

Tecnicamente ora c’è più preparazione fisica e regole differenti, ma la cosa che più mi pare rilevante è che ora abbiamo a disposizione moltissime informazioni. Per esempio, basta andare su youtube per trovare moltissimi video in cui ciascun campione mostra il proprio speciale. Quello che però non si vede sono i dieci anni che quella persona ci ha messo per imparare, perfezionare e adattare su di sé quella specifica tecnica! Ora molte persone dicono: “ho visto questo e questo e quest’altro!”. Abbiamo a disposizione una quantità enorme di informazioni che non siamo in grado di processare, né tanto meno siamo in grado di distinguere ciò che è utile per noi e ciò che non lo è. Il problema è che si seguono le mode, trascurando le basi; bisognerebbe, piuttosto, dire a se stessi “fermati, ragiona, rifletti: perché fai questo?”. Io credo che per avere una tecnica veramente efficace, ciò di cui ho davvero bisogno è lavoro e questo non è cambiato, per cui non mi sento di dire che esiste un judo moderno, contrapposto a un judo del passato. Le base sono le stesse, la gente è forse più preparata fisicamente, ha la possibilità, come dicevo poco fa, di reperire più facilmente, moltissime informazioni, però attenzione che ciò che ripaga alla fine è l’essere determinati a voler fare.

  • Con che spirito è tornato a questo stage di judo?

Posso essere sincero? Sono tornato perché mi hanno chiamato –ride-! Sto scherzando, naturalmente. Sono tornato perché questo training camp è davvero ottimo sia per i miei figli, di tredici anni il maschio e di venti la femmina e cominciare il nuovo anno con questo livello è perfetto per entrambi! E poi perché si respira un livello davvero alto e credo sia così perché la gente che partecipa desidera migliorare e passare dall’essere tra i migliori a livello nazionale all’essere tra i migliori a livello internazionale. E la gente pensa che questo sia una buona occasione per vedere come si muove e lavora chi a quel livello c’è già arrivato. C’è una grande energia in tutte le direzioni e a tutti i livelli!

  • Si considera molto severo?

Per me è importante che ogni persona che segue le mie lezioni, capisca che cosa intende fare con il judo. Cerco di portare ciascuno a fare questo passo, a capire quali obiettivi vuole conseguire e per ciascuno la risposta è differente. Questo lo faccio con bambini di dieci anni, che mi mostrano una tecnica, ma lo stesso lo faccio anche con mia figlia ho fatto lo stesso: mi sono chiesto “dove si trova questa ragazza? Qual è la sua motivazione? Se vuole arrivare qui, il prossimo passo sarà questo. E poi questo. E così via”. Ci sono alcuni atleti che arrivano magari da gare nelle quali hanno conquistato delle medaglie, che si sentono dei campioni, ma così si trasformano in persone poco empatiche o addirittura arroganti. Attenzione, perché siamo persone, non animali: la gente che pratica judo è forte e per questo motivo ha bisogno di messaggi altrettanto forti!

  • L’ultima domanda è in linea con il Suo atteggiamento: che cosa le dà gioia quando insegna?

Io non mi sento di essere molto importante, ma quando la gente desidera fare judo insieme a me, io sono contento! Questo è tutto ciò che ho in questo momento: questo è il mio tipo di vita. Non penso di essere una persona né troppo calorosa, né troppo fredda, ma equilibrata, di certo di atteggiamento positivo.

La prospettiva che seguiamo ora punta alla rapidità, al risultato, alla velocità. Abbiamo perso empatia, facciamo fatica a pensare agli altri. Rischiamo di dimenticarci e perdere il concetto di “do” del judo: non dimentichiamo mai che cerchiamo la via, non cerchiamo solamente cose materiali. Ciò che dobbiamo cercare nella nostra vita dev’essere un percorso forte, chiaro, ma che non si concentri solamente su di noi. Fino a quanto potrò pensare “io, io, io?!”.

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