Il rugbista che fa scudo al rivale infortunato rompe le regole dell’egoismo e ci fa riflettere
Centoundici centimetri sudati e testosteronici di scudo al suo avversario. Talalelei Gray, rugbista australiano del Tolosa, lo ha fatto. Senza pensarci. Quasi senza accorgersene, con la noncuranza con cui si fanno i gesti davvero grandi che al momento sembrano piccoli. Era il 26 novembre scorso, si era allo stadio Gerland di Lione, c’era una partita della Super 14, la serie A francese, tra la sua squadra e quella di casa, il Lione. C’era una mischia, un garbuglio di corpi a contendersi una palla scivolosa che compariva ogni tanto tra una tibia e una testa. Talalelei detto «Tala» era a terra, come altri, ha sentito le urla, si è girato e ha visto un suo avversario, Virgile Bruni, accasciato con una gamba tra le mani. Ha capito che quel nemico, quell’avversario, quell’uomo rischiava di essere travolto dalla mischia laocoontica, e si è frapposto con il suo quintale abbondante tra l’uomo ferito e gli altri che di nulla si erano accorto, per evitare che venisse travolto, che venisse calpestato.
Poi si è saputo che Bruni aveva appena avuto il legamento crociato della gamba sinistra spezzato come un filo di seta e per questo urlava, bambino di 28 anni, di dolore, di paura, di rabbia. Il video ha fatto il giro del mondo, il terza linea con il ghigno da cattivo che si fa madre, si fa tana, è diventato un eroe. Qualcuno ha ritirato fuori la storia della superiorità morale del rugby, «che non è come il calcio», uno sport virile e furibondo in cui non ci sono risse perché ci si rispetta, in cui si beve una birra con la squadra avversaria nel terzo tempo, dopo.
Ma sarebbe riduttivo ridurre il gesto di «Tala» a un aneddoto decoubertiniano. Qui non siamo nella tragedia. Nel luogo dell’anima in cui si accetta la sfida tra l’interesse contingente del momento e il rispetto delle regole umane prima ancora che agonistiche. «Tala», con tutte le sue elle del suo nome cantilenante, con la sua faccia da scugnizzo aborigeno, ha fatto la sua scelta in un battere di ciglia, tirando fuori da quell’antro ricolmo di cattiveria agonistica che è la sua anima, la luce tranquilla di una fratellanza antica, atavica. L’orco che si fa madre.
Ma che cos’è che rende la lealtà così sconvolgente, così rivoluzionaria, così letteraria? Quel suo rompere le regole che vogliono il particulare – che per Guicciardini è il nostro dio senza maiuscole, l’interesse personale – farsi beffe ogni giorno di ogni legge, di ogni religione, di ogni umanità. «Tala» ci ha detto che ogni combattimento ha una parentesi rosa, che ogni guerra si fa guardando negli occhi il nemico.
Gli episodi di lealtà ci hanno sempre affascinato, perché la cronaca la fanno le regole ma la storia la scrivono le eccezioni. Sofocle nel Filottete esalta la forza tranquilla del giovane Neottolemo, fratello di Achille, spedito dai Greci assieme a Odisseo a Lemno per recuperare l’arco di Filottete, abbandonato su quell’isola da anni perché ammalato; un oracolo ha detto che senza quell’arco i troiani non saranno sconfitti. Ma Neottolemo, costretto a raggirare Filottete, si pente mosso da un sentimento primordiale di empatia con quell’uomo scacciato dagli antichi compagni, e gli restituisce l’arco attirandosi le ire di Odisseo. Nell’Orlando Furioso Lodovico Ariosto scolpisce un paio di personaggi rigonfi di gloriosa devozione, come gli amanti Ruggiero e Bradamante. Ma anche il nostro quotidiano ogni tanto si incarica di ricordarci come seguire il nostro spesso seppellito senso di giustizia sia possibile se non ineluttabile. È il poliziotto che consola la migrante africana durante lo sgombero della struttura in cui lei vive. È una manifestante che abbraccia un altro poliziotto durante una manifestazione contro l’Ilva, perché «siamo tutti poveri cristi». È l’agente di colore che soccorre un tizio del Ku Klux Klan che si è sentito male malgrado per quell’uomo sia il destinatario di un odio insensato. Darei la vita per difendere le idee di chi non la pensa come me, «non» disse Voltaire. Darei la vita per difendere il corpo di chi magari, domani mi batterà, «non» ha detto Tala. Ma lo ha fatto. Vincendo da solo.
Andrea Cuomo (Il Giornale, 4 dicembre 2017)