Riccardo Riccò. Il cobra non c’è più. «Ho rischiato di morire: non lo sa nessuno, ma andai a ringraziare i medici di Modena. Meglio il doping che il motorino»
Perché? Che cosa vorrà dire? Luoghi e persone a volte si incrociano in uno strano gioco del destino. Circostanze inquietanti. L’appuntamento in tarda mattinata con Riccardo Riccò è nello studio del suo avvocato, Fiorenzo Alessi. Il Cobra, o quello che è rimasto, vuole confidarsi, spiegare, raccontare il suo passato e la sua nuova vita. All’apparenza è tutto normale. Fino a pranzo. Si decide per una pizza in un luogo comodo, vicino allo studio. Si finisce da un appassionato di ciclismo. Forse l’ultima persona che, portandogli una pizza in camera, ha visto Marco Pantani vivo.
Il 19 aprile di cinque anni fa, il Tribunale Nazionale Antidoping ha inflitto a Riccò una squalifica di 12 anni per auto-emotrasfusione, accogliendo la richiesta della Procura antidoping Coni. Per violazione dell’art. 9 della legge 376/2000, il modenese ha patteggiato al Tribunale di Modena una pena di 2 mesi e 20 giorni più 2mila euro di multa (sentenza non definitiva). Parlare di Riccò è quindi come parlare del diavolo. «Lo so, nel ciclismo mi considerano un appestato. Ma conosciamo bene anche l’ipocrisia di questo mondo». Al suo fianco c’è Melissa, la modenese che ha sposato poco più di un anno fa.
Lei è stato ascoltato anche dalla Circ (Commissione indipendente per la riforma del ciclismo).
«Sì, nel marzo 2014 a Losanna. Un incontro di sette ore in cui ho spiegato i fatti e fatto i nomi. Alla fine ho firmato un contratto – senza data di scadenza – di riservatezza sui contenuti. Ma andare alla Circ non è servito assolutamente a nulla, non ho avuto sconti di pena, perché per la Fci e l’Uci sono un appestato. Ma come corridore ho fatto quello che hanno fatto quasi tutti. Mi sono adeguato al sistema, mi sono dopato e sono stato squalificato. Ma mi pare che quasi tutti quelli che lottavano con me qualche problemino lo abbiano avuto. Sbaglio? Però per loro è stato usato un altro metodo».
Per il doping ha rischiato di morire.
«Sì, setticemia. Un batterio era finito nella sacca. Non si trattava di cattiva conservazione come molti hanno detto. Non tenevo il sangue nel frigo con la verdura, non sono scemo. Avevo un frigorifero apposito. Quando ho iniziato a stare male, non sapevo cosa fare e la situazione è precipitata. All’ospedale Baggiovara mi hanno acciuffato per i capelli. La situazione era così critica che non ho avuto neppure il tempo di avere paura. Però il rischio è stato altissimo. Non lo sa nessuno, ma una volta finito tutto sono passato in ospedale a ringraziare i dottori».
Come vive oggi Riccò?
«Faccio il gelataio a Tenerife. Tutte le mattine mi alzo e via, a lavorare. Un amico mi ha insegnato l’arte e io ho aperto il Choco Loco a El Palmar. Faccio anche gelati per cani, ho una bella clientela. In Spagna ti lasciano lavorare, alle Canarie il clima è fantastico, ma noi italiani siamo considerati cittadini di serie C. Però sarà la maturità, sarà il lavoro… un po’ come persona sono cambiato. Mi piace fare il gelataio. Però non proverò mai l’amore che ho provato e provo per la bici».
E la bici?
«Ci vado poco, però mi piace sempre. Quando mi alleno mi rigenero, la mia testa si rilassa. Però di corse ne guardo poche. Vedo che i miei ex colleghi vanno sempre forte come prima se non di più. Valverde è come l’aceto, più invecchia e più è forte. Aru mi piace. Sagan è un personaggio unico che fa bene al mondo del ciclismo. Nibali mi piace, è il più forte che abbiamo».
E il suo amico Piepoli?
«Ho letto che fa il preparatore. Io non lo farei mai. Sa come si prepara un corridore. Avrà adeguato il metodo, riducendo i carichi di lavoro anche se…».
Anche se?
«Sono puliti adesso i corridori? Ne avete la certezza? Io sono fuori dal mondo, non lo so. Ma lei cosa ne pensa? Poi è brutto chiedersi se la gente preferisce questo ciclismo o quello di qualche anno fa? Un aiuto chimico sotto controllo medico, anche se lo chiamate doping, fa meno male che gli sforzi di un ipotetico Tour a pane e acqua. E posso aggiungere che preferisco il doping chimico al motorino? Almeno devi avere il coraggio di giocare su te stesso. Con il motorino è un altro sport. Non sarei mai riuscito ad usarlo. Mi sarei sentito una merda».
«Sì. Paura di essere beccato, dei controlli. Per questo ho sempre fatto meno di quello che mi dicevano. Ma non ho mai avuto paura per la salute».
Approvvigionamento: internet, colleghi, farmacie…?
«Con una persona di fiducia. Il mercato nero è molto florido. Anche le case farmaceutiche fanno la loro parte. Ma sono intoccabili».
Gli sportivi potrebbero essere delle valide cavie per testare farmaci in fase sperimentale.
«E’ una tesi che regge e che ha un senso. Indagate».
Al suo fianco c’era il dottor Santuccione.
«Una grande persona. Un uomo che mi ha voluto bene e che non dimenticherò mai. Non sono mai voluto andare da Ferrari perché non sopportavo l’idea che potesse essere lui a decidere gli ordini d’arrivo. Ferrari aveva mille corridori, faceva le classifiche».
Perché con lei i giudici si sarebbero accaniti?
«Perché non ho mai contato troppo prima di dire quello che penso. Ero un giovane molto esuberante e senza filtri, sempre pronto a esplodere. Non ho mai avuto vicino una persona che godesse della mia fiducia, a eccezione di Santuccione. Ma devo dire che non era neanche facile starmi vicino, aiutarmi. Basso, al contrario, è stato bravo a vendersi bene mediaticamente. E’ un suo merito. In più ha avuto anche la fortuna di avere vicino le persone giuste».
Lei no?
«No, per niente. Appena ho avuto problemi sono spariti tutti. La maggior parte dei manager, i procuratori, pensa solo a far denaro. Mi fanno schifo. Anche sul tema doping ci sono manager che sanno tutto e ti indirizzano dove andare. Nel ciclismo pagano corridore e squadre, io estenderei la responsabilità ai manager e, per i giovani, ai famigliari. I controlli nel professionismo ci sono, va bene anche se sono convinto che serva un tavolo di lavoro per cambiare la normativa. La legge antidoping non può e non deve essere uguale per tutti, amatori e professionisti. Poi bisogna investire molto di più sui controlli ai giovani. Lì si che bisogna lavorare duro».
E le squadre?
«Pilatesche. Se ne lavano le mani. Non ti dicono più che ti devi dopare, ma che devi portare risultati. Chiediti come».
Il futuro di Riccardo Riccò?
«Tornerò a correre».
Prego?
«Quando nel 2023 scadrà la mia squalifica avrò 40 anni. Sarò ancora competitivo. Se fossi allenato sarei più forte ora di prima. Fisicamente mi sento così. Ci sono squadre che mi vorrebbero. In caso contrario ne farei io una. Ma io prima o poi torno a correre».
Non teme che l’eventuale ritorno alle corse possa compromettere quell’equilibrio che ha ottenuto?
A questo punto interviene Melissa, la moglie: «Quello che vedete è un Riccardo in equilibrio, ma è solo apparenza. La realtà è che lui è un vulcano in sonno. Sta buono, ma dentro soffre, si rode. Forse troverà pace solo il giorno che si attaccherà di nuovo un numero sulla schiena».
Intervista di Claudio Ghisalberti
La Gazzetta dello Sport di giovedì 28 dicembre 2017