«Andrà tutto bene, restate a casa». Quello slogan diventa un disegno di tanti bambini, uno striscione sui balconi, uno spot televisivo. E anche uno spiegazzato foglio di carta con cui festeggiare un gol. Uno dei gol dell’ultima sera prima del lungo black out del calcio italiano. Francesco Caputo, calciatore del Sassuolo, lo tira fuori davanti alla telecamera ed è come un fratello, un amico, un vicino di casa che ti dice: teniamo duro. È il 9 marzo, sono da poco passate le sette di sera. Un’ora prima, in quello che sta diventando il nostro quotidiano appuntamento con l’angoscia, la Protezione Civile ha diramato il suo bollettino: 9172 positivi e 463 morti. La tragedia da grande diventerà enorme. Oggi siamo arrivati a 238.011 contagiati e a 34.561 vittime. Ma ora l’Italia ha riaperto, la curva del virus ha preso a scendere, anche il pallone s’è rimesso a rimbalzare pure se in mezzo al deserto. A 101 giorni da quel Sassuolo-Brescia, a 99 dal primo positivo in serie A, lo juventino Daniele Rugani, oggi torna pure il campionato.
Presidente e ministro
Un campionato che ha dimostrato di avere sette vite. Un lungo su e giù, soprattutto giù all’inizio, salite che ti stroncano, slalom pieni di trappole. Una storia scritta da tante mani, quattro in particolare, quelle di Gabriele Gravina da una parte, e di Vincenzo Spadafora dall’altra. Il presidente della Federcalcio ci ha creduto sempre anche quando erano pochissimi a farlo. Il ministro dello Sport è stato considerato come il «nemico» del calcio per diverse settimane, ma ha poi dato, quando il quadro del Paese s’è fatto diverso, una spinta a ricominciare.
Il pericolo Francia
Il momento più duro è capitato a metà strada. Gravina l’ha chiamato diverse volte per nome in questi giorni: Francia. Lo stop alla Ligue 1 decretato dal primo ministro Philippe ha portato l’Italia vicino a quella strada. Spadafora parlava di «sentiero sempre più stretto». L’emergenza non finiva, il calcio sembrava a una distanza cosmica dallo stato d’animo degli italiani. Un sondaggio la fotografava: il 64 per cento del Paese era contrario alla ripresa. In marzo anche le Olimpiadi e gli Europei avevano preso armi e bagagli per spostarsi al 2021. I calciatori si allenavano a casa, non si parlava che di taglio degli stipendi. Giovanni Rezza, dirigente dell’Istituto Superiore di Sanità, spiegava: «Il calcio è uno sport di contatto. Difficile ora ripartire». La riunione del Cts con la commissione medica della Federcalcio s’era conclusa con la bocciatura del protocollo. Gravina era stato costretto a ripartire praticamente da capo e a raccogliere i cocci dell’ennesimo scontro Lega di A-Ministro. La richiesta di una data da parte dei club era stata respinta da Spadafora visti i dati sempre tragici dell’emergenza. Ancora a metà maggio, il premier Conte, fino ad allora considerato il potenziale alleato del calcio rispetto al «nemico» Spadafora, aveva gelato tutti: «Servono garanzie che ora non ci sono». Intanto tre quarti di Parlamento, maggioranza e opposizione, hanno cominciato a spingere per ripartire. E Spadafora ha avvertito che qualcosa stava girando anche nel cuore del Paese, sulla scia di una nuova situazione epidemiologica. Di qui l’incontro del 28 maggio e per la prima volta, la parola neanche pronunciabile, campionato, che entra finalmente in gioco. Con pace fatta pure con Dal Pino e la Lega di A.
L’ultimo fantasma
Restava il fantasma della positività azzera campionato con il contorno di sofferti piani B e C, dai playoff all’algoritmo. Se la rivisitazione del protocollo per gli allenamenti – niente ritiro «bolla» ma più tamponi e test – era stato costruito soprattutto costruito dalla Lega, nella volata finale è stato di Gravina il dialogo vincente con gli scienziati. Al via libera del Cts mancava però la copertura giuridica. Spadafora l’ha sottolineato tornando per qualche ora per molti il «nemico» del calcio. Per poi lavorare alla fumata bianca di giovedì, la circolare del ministero della Salute che ha definitivamente aperto alla quarantena soft.
La parola più usata
Diciamoci la verità: siamo rimasti a casa, ma non è andato tutto bene. Il cartello di quel 9 marzo non è stato profetico. La tragedia è e resterà nella pelle del Paese. Il calcio non può ignorarlo. In questi mesi ha avuto, a tratti, la spocchia di chi pensa di vivere in un mondo tutto suo. Ma è indubbio, il suo legame con gli italiani è davvero profondo. Lo dicono i 10 milioni e passa di telespettatori per la finale di Coppa Italia. E lo illustra bene una parola, pronunciatissima in questi 101 giorni, che deve la sua fortuna ad Arrigo Sacchi. Una parola nata e cresciuta nel calcio come testimoniano i vocabolari: ripartenza. Oggi racconta il campionato che riprende. Ma ci sono tante Italie che la usano. E, in mezzo a tanti guai, la sognano. Buona fortuna anche a loro.
Valerio Piccioni – La Gazzetta dello Sport sabato 20 giugno 2020